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La terapia ipolipemizzante in prevenzione secondaria

Prevenzione secondaria ipercolesterolemia

L’importanza della prevenzione secondaria

Se è vero che durante la fase acuta di un evento cardiovascolare le maggiori attenzioni mediche sono dirette alla cura del paziente, nelle fasi successive l’attenzione dovrebbe essere in gran parte focalizzata alla prevenzione di un secondo evento.

Il controllo dei principali fattori di rischio cardiovascolare modificabili (tra cui citiamo ipertensione arteriosa, tabagismo, diabete mellito e dislipidemia) rappresenta la strategia fondamentale di prevenzione e, tra i vari fattori di rischio, il controllo della dislipidemia è sempre stato uno dei campi di maggior interesse.

 

Combattere l’ipercolesterolemia, un po’ di storia

Conosciamo il colesterolo dal 1815, quando Michel Eugène Chevreul, chimico francese, ne scoprì l’esistenza isolandolo all’interno di calcoli delle colecisti.

 

Fu successivamente uno scienziato russo, Nikolai Anitschkow, a verificarne il potenziale effetto sui vasi, dimostrando che un’alimentazione ricca di colesterolo fosse in grado di determinare aterosclerosi coronarica e aortica nelle arterie del coniglio.

 

Fu poi il famoso studio Framingham, condotto nell’omonima cittadina del Massachussets dal 1948, a riconoscere chiaramente l’ipercolesterolemia come uno dei principali fattori di rischio cardiovascolare.

 

Nel 1984 e nel 1987 due successivi studi di intervento farmacologico dimostrarono poi che la somministrazione di colestiramina, un chelante degli acidi biliari, e di gemfibrozil, un fibrato, riducevano i livelli di colesterolo LDL con una conseguente riduzione del rischio di infarto miocardico.

 

A questi studi seguì il primo grande studio sulle statine, lo studio 4S, condotto nella penisola scandinava. In questo studio l’utilizzo di simvastatina ridusse del 34% il rischio di eventi coronarici e del 30% la mortalità totale in soggetti con storia di infarto miocardico, dimostrando quindi l’importanza della prevenzione secondaria.

 

 

I farmaci per ridurre il colesterolo LDL

Come abbiamo già visto qui, la popolazione con malattia cardiovascolare nota (pregresso infarto miocardico, ictus, arteriopatia periferica o coronaropatia documentata) rappresenta infatti una popolazione a rischio molto alto di eventi cardiovascolari in cui i valori target di colesterolo LDL da raggiungere sono particolarmente stringenti (< 55 mg/dl).

 

Un tale valore non è raggiungibile solamente con la dieta e necessità sempre di una terapia farmacologia appropriata. Infatti, circa il 70% del colesterolo presente all’interno del nostro organismo viene prodotto a livello epatico e risulta quindi fondamentale ridurre la sua produzione.

 

I farmaci più affermati in questo ambito sono le statine che, tramite l’inibizione dell’enzima HMG-CoA reduttasi, bloccano una tappa limitante della sintesi del colesterolo. La mevastatina, un derivato fungino, è il capostipite di questa classe di farmaci e fu scoperto dal biochimico giapponese Akira Endo nel 1974. Pur non essendo mai stata commercializzata, ha rappresentato la base per lo studio e lo sviluppo di altre molecole appartenenti a questa classe.

 

L’attuale disponibilità di numerose molecole con differente potenza d’azione e molteplici dosaggi permette di ottenere percentuali di riduzione dei livelli di colesterolo variabili da circa il 20% a circa il 55%, raggiungendo i valori target nella maggior parte dei pazienti.

 

È tuttavia opportuno sottolineare che esiste una notevole variabilità di risposta interindividuale alla terapia e che alcuni pazienti hanno dei valori basali di colesterolo LDL particolarmente elevati per cui, in caso di mancato raggiungimento dei valori target, occorre considerare l’associazione con altri farmaci. Ezetimibe, ad esempio, blocca l’assorbimento intestinale di colesterolo, agendo su un meccanismo differente e complementare rispetto a quello delle statine; da ciò deriva il particolare beneficio derivante dall’associazione di questa molecola con una statina. Ezetimibe determina un’ulteriore riduzione di circa il 20% dei valori di colesterolo LDL.

 

Di più recente introduzione sono gli inibitori di PCSK9 (Alirocumab ed Evolucumab), due molecole somministrate per via sottocutanea ogni 14 giorni. Tramite l’inibizione di PCSK9, una molecola prodotta a livello epatico, aumentano l’internalizzazione nelle cellule epatiche di colesterolo LDL, i cui valori vengono ridotti di circa il 60%. L’utilizzo di questi farmaci è riservato ai pazienti in cui non si riesca a raggiungere il target di LDL con combinazione di statina ad alto dosaggio ed ezetimibe, o ai pazienti con intolleranza alle statine.

 

Le molecole del futuro prossimo

Frutto della ricerca e del crescente interesse in questo ambito sono altre due molecole, ancora non commercializzate ma presto in arrivo sul mercato, ovvero acido bempedoico e inclisiran.

 

L’acido bempedoico agisce sulla stessa via metabolica di produzione epatica del colesterolo su cui agiscono le statine, riducendo i valori di LDL di circa il 20%. Tale molecola, assunta per via orale, verrà attivata e agirà selettivamente a livello epatico, rendendo quindi nullo il rischio di dolori muscolari (mialgie) o tossicità muscolare che è invece il principale problema che determina intolleranza alle statine.

 

Inclisiran è invece una breve sequenza di RNA che, tramite una somministrazione sottocutanea ogni sei mesi, è in grado di inibire la sintesi di PCSK9, potenzialmente riducendo i valori di LDL di circa il 60%.

 

È fondamentale una stretta collaborazione medico-paziente

Nonostante questi presupposti, secondo un recente studio, solamente il 18% dei pazienti a rischio molto alto di eventi cardiovascolari raggiunge il valore target di LDL proposto dalle linee guida; ciò sottolinea ancor di più la necessità di una stretta collaborazione medico-paziente per ottimizzare il controllo di un importante fattore di rischio cardiovascolare nell’ottica di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari futuri.

 

Giacomo Ruzzenenti, Alessandro Maloberti, Cristina Giannattasio


11/01/2022