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L’IMA in Ospedale: Vite fait bien fait!

L’efficacia della terapia dell’infarto miocardico acuto si basa sulla precocità dell’intervento: quanto prima viene iniziata la terapia e riaperta la coronaria occlusa, tanto più piccola sarà l’area infartuale e, quindi, la perdita di forza contrattile del cuore. Time is muscle, il tempo è muscolo, è l’espressione che riassume bene questo concetto.

La comunità cardiologica si è, quindi, adoperata per individuare le cause che determinano il ritardo delle cure per poter intervenire adeguatamente.

L’intervallo di tempo tra l’inizio dei sintomi e l’inizio delle cure viene definito “ritardo evitabile”, nel quale si identificano il ritardo decisionale, legato al paziente, il ritardo organizzativo, legato all’organizzazione del soccorso, e il ritardo ospedaliero.
Quest’ultimo costituisce, negli studi italiani eseguiti, la parte minore del ritardo evitabile, ma rappresenta una vera sfida culturale e organizzativa per i cardiologi ospedalieri.

Nel ritardo ospedaliero potrebbe verificarsi all’arrivo in dipartimento d’emergenza e accettazione (DEA), all’arrivo in unità di terapia intensiva coronarica (UTIC) e immediatamente dopo la fase terapeutica, soprattutto in caso di somministrazione di farmaci fibrinolitici.

Il ritardo in DEA è legato a problemi organizzativi o di mancato riconoscimento dell’urgenza. Il paziente con sintomi atipici è a rischio maggiore di non essere prontamente identificato e, perciò, di non essere avviato ad una valutazione con carattere prioritario. Ma anche il paziente con sintomi tipici, in assenza di un percorso interno codificato, rischia di attendere molti minuti prima di eseguire un elettrocardiogramma (ECG).

Le linee guida indicano in 10’ il tempo di esecuzione del primo tracciato, ma una recente indagine nazionale promossa dall’Associazione Nazionale dei Medici Cardiologi Ospedalieri ha evidenziato come in alcuni ospedali il primo ECG venga eseguito oltre i 30’.

Quali i provvedimenti per contrastare questa forma di ritardo?
Innanzi tutto di carattere organizzativo: il paziente giunto in DEA deve essere valutato da un infermiere esperto che, sulla base di un questionario, riesce ad identificarne la problematica e ad avviarlo alla valutazione urgente o meno (Triage).

Inoltre, deve essere prevista la possibilità reale di eseguire un ECG entro pochissimi minuti in un paziente con sospetto IMA, indipendentemente dal grado di affollamento del pronto soccorso (devono perciò essere previsti dei percorsi preferenziali per la valutazione del paziente con sospetto attacco cardiaco).

E’ importante anche avere la possibilità di eseguire rapidamente accertamenti sul sangue del paziente, per determinare la presenza di alcune sostanze (enzimi e proteine strutturali) che facilitano la diagnosi di infarto nei casi meno certi. Oggi esistono kit per poter eseguire queste determinazioni in maniera affidabile anche senza l’ausilio di un attrezzato laboratorio.

Il sospetto attacco cardiaco deve essere considerato una priorità assoluta, e perciò tutto deve essere predisposto per affrontare questa emergenza nel modo più efficace e rapido.

Si deve addestrare il personale del triage e il personale medico a riconoscere le forme meno tipiche e meno eclatanti. Si devono approntare protocolli di valutazioni cliniche, di ECG e di esami ematochimici, che siano adeguati non solo alla realtà locale, ma anche, e soprattutto, alla necessità del paziente.

Bisogna aumentare la capacità diagnostica dell’elettrocardiogramma, aumentando, nei casi adatti, il numero di derivazioni registrate (dalle dodici standard a diciotto), aumentando la sensibilità verso le modificazioni minori del tracciato.

Si deve sempre eseguire la stratificazione prognostica del paziente: è infatti possibile definire, in base alla presenza di alcune caratteristiche cliniche e strumentali semplici (età, frequenza cardiaca, pressione arteriosa, caratteristiche dell’ECG, condizioni di compenso), la gravità del caso e la categoria di rischio, per poter scegliere poi la strategia terapeutica più idonea.
Tutto ciò può portare ad anticipare la somministrazione di alcuni farmaci indicati nell’IMA.

Dopo la diagnosi, il paziente viene trasferito nell’UTIC, passando prima dal laboratorio di emodinamica nel caso sia stato scelto di eseguire un’angioplastica coronarica.

L’emergenza non è finita: bisogna rapidamente riaprire la coronaria occlusa.

Anche in questa fase, l’organizzazione dei percorsi, con l’approntamento di flow chart di comportamento per ogni componente dell’equipe impegnata, è di cruciale importanza per anticipare i tempi del trattamento.

C’è sempre il rischio che, dal momento che il paziente è giunto in un ambiente protetto, possa esservi un certo grado di rilassamento, come se il massimo sforzo fosse stato già fatto. Invece, ogni passaggio, dal monitoraggio del paziente, alla somministrazione dei farmaci, alla cadenza dei controlli clinici e strumentali, deve essere ben conosciuto dal personale che, ottenuta dal medico la conferma diagnostica e l’indicazione terapeutica, deve procedere rapidamente ed autonomamente nello step previsto.

Nel caso che la fibrinolisi sia stata la terapia scelta, la preparazione e la somministrazione del farmaco dovrà essere il primo obiettivo da raggiungere e nel più breve tempo possibile. Se il paziente sarà avviato all’angioplastica primaria, il percorso interno non deve far perdere più di 30-40 minuti prima che venga iniziata la procedura di dilatazione coronarica.

Ogni ospedale dovrebbe periodicamente valutare l’efficienza della sua organizzazione e la validità dei suoi percorsi interni, calcolando quel tempo che in linguaggio tecnico è definito “door to needle” (il tempo tra l’arrivo in ospedale e la somministrazione del farmaco trombolitico) o “door to ballon” (il tempo tra arrivo e posizionamento del palloncino nell’arteria coronaria).

Esiste ancora un’ultima forma di ritardo evitabile ospedaliero, questa poco quantificabile, ed quella che riguarda la valutazione dell’efficacia della terapia fibrinolitica.

E’ noto che questi farmaci sono pienamente efficaci (nel senso di una completa e duratura riapertura della coronaria occlusa) solo nel 50-60% dei pazienti, mentre negli altri possono essere inefficaci o solo parzialmente efficaci, oppure il vaso può andare incontro ad una riocclusione che può essere anche silente. Nei pazienti con ampia estensione dell’area infartuale o con esordio della malattia complicato da insufficienza cardiaca, è importante essere sicuri dell’efficacia del trattamento perché, in caso contrario, il paziente andrà incontro ad una evoluzione sfavorevole della malattia.

Se non si è sicuri del risultato o se gli indici monitorizzati indicano che l’andamento non è quello desiderato, bisogna eseguire rapidamente sul paziente una coronarografia ed eventualmente un’angioplastica di soccorso In conclusione, la gestione del paziente con IMA che giunge in ospedale è caratterizzata da una sequenza di passaggi (diagnostici, assistenziali, terapeutici) che presentano differenti gradi di complessità. Tutti richiedono massima attenzione e celerità.

Il destino del nostro paziente dipende proprio da tutto questo, dalla nostra abilità a coniugare in tutti i casi presto e bene: la fretta è giustificata, perché è parte fondamentale del successo.
Anche questo ha fatto del De Gasperis una struttura di eccellenza.

Autore: Antonio Mafrici